L’off-season e’ sicuramente un lungo e difficile momento per qualsiasi appassionato di baseball. Come ogni momento ‘drammatico’, pur nei giochi della vita, bisogna riuscire a rimbalzare sfruttando la negativita’ al meglio in maniera da invertire la rotta al piu’ presto. Sappiamo che ad aprile 2012 le partite ricominceranno. La prima partita dei Rangers sara’ per l’appunto venerdi’ sei aprile contro i White Sox. Ma cosa fare nel frattempo? Personalmente leggero’ parecchio e studiero’ un po’ di storia del baseball, in maniera da ricordarmi che la primavera prima o poi arrivera’. Ieri ho finito la lettura di “Baseball in the Garden of Eden” di John Thorn, lo storico ufficiale della MLB. Per il prezzo piu’ che accettabile di $17.12 su Amazon ($26.00 prezzo regolare) si ottengono oltre 350 pagine di puro piacere storico-sportivo.
La domanda di fondo al libro e’ se e’ possibile risalire ad un inventore del baseball o, almeno, alla prima partita mai giocata. In realta’ l’autore ci fa una panoramica dell’America del XIX secolo e di come certa mentalita’ abbia influenzato pesantemente il gioco fino quasi a distruggerlo. Ovviamente viene dedicato ampio spazio alla Commissione Mills, quella desiderata da Spalding in cui si stabili’ senza alcuna prova storica che l’inventore fu Abner Doubleday, l’eroe americano. Se precedentemente si pensava che la Commissione scelse Doubleday perche’ faceva comodo –nulla di meglio che un eroe di guerra per pubblicizzare un gioco che doveva essere a tutti i costi americano –il libro ci rivela ragioni abbastanza inquietanti e il ruolo cui la Theosophist Society, una setta religiosa che diede poi inizio alle altre varie sette religiose americane, prese una parte fondamentale. Thorn ci spiega subito che e’ impossibile risalire ad un inventore, ne’ Doubleday ne’ Cartwright dei Knickerbockers possono ottenere il trono storico e nessuno dei due merita allori per un’invenzione che di fatto non hanno mai realizzato. Per capire quindi il senso della Commissione Mills, l’autore ci spiega accuratamente che il baseball del XIX secolo dopo aver preso piede divenne immediatamente corrotto da scommettitori, sfruttatori, lavoratori, razzisti e quant’altro di peggio ci fosse nella societa’.
L’immagine che si fa dei proprietari e’ proprio quella dello schiavista senza scrupolo disposto a qualsiasi cosa pur di guadagnare, incluso il famoso “gentlemen agreement” secondo cui una persona di colore non poteva giocare in una squadra di professionisti. Curiosamente, Thorn ci spiega che per “nero” si intendeva tendenzialmente un cittadino americano: portoricani e simili erano ammessi, quindi forse non era semplicemente una questione di colore della pelle.
Da dove deriva quindi il mito di Doubleday? E’ difficile spiegarlo, non rimane che leggere il libro, la questione e’ infatti intricatissima e coinvolge numerose persone nell’arco di diversi decenni in cui una volta dimenticata la voglia del gioco puro la pieta’ umana venne lasciata da parte. “Baseball in the Garden of Eden” e’ abbastanza complesso, pieno di dati, nomi ed informazioni. Ricoprire quel periodo in un solo volume e’ di fatto impossibile ma Thorn fa un lavoro piu’ che ottimale. Una nota importante: il testo pubblica diversi documenti originali mai pubblicati in precedenza e scoperti dall’autore stesso. Decisamente consigliato.
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